Back to top
Associazione Comunicazione Pubblica
Chi siamo
Contattaci
Lunedì della 9:30 alle 15:30
dal martedì al venerdì dalle 9:30 alle 14:30.
Via Marsala 8 - 20121 Milano
info@compubblica.it
02 67100712
345 6565748
Comunicazione Pubblica

Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale

intervento prof. Rolando "25 anni di diritto alla comunicazione e all'informazione"

25 anni di diritto alla comunicazione e all’informazione.
Legge quadro, deontologia, tecnologie e prospettive della Pubblica
Amministrazione per una sana e robusta Costituzione, nella traiettoria europea.

Convegno promosso dalla Associazione italiana per la comunicazione pubblica e istituzionale e dal Movimento Europeo – Roma, Spazio Europa, martedì 1° luglio 2025


Stefano Rolando
Università IULM Milano
Presidente del Club of Venice
(comunicazione dei paesi membri e delle istituzioni UE con segretariato presso Consiglio UE)

 

 

 

Credo che dobbiamo razionalizzare tempo e parole. Per cui provo ad andare al dunque, in assoluta sintesi, di quel che vado dicendo e talvolta scrivendo negli ultimi tempi sulla materia oggetto di questo utile incontro.

Il tema sollevato dal meeting di oggi potrebbe essere detto così:

  • C’è una legge da 25 anni che offre motivazioni e architettura organizzativa per prestazioni della Funzione pubblica che prima erano volontarie e che così sono state rese obbligatorie, creando dunque un diritto al posto di un bisogno, distinguendo in quell’architettura le funzioni notiziabili da quelle di spiegazione o di accompagnamento che vanno rispettivamente sotto le voci “informazione” e “comunicazione”, tuttavia con scarsa percezione del ciclone della trasformazione digitale che ha nutrito i 25 anni successivi a questa legge e che pertanto ora, anche con la consapevolezza che a differenza del sanscrito, questa materia ha un’obsolescenza disciplinare molto ma molto più stressata e rapida, potrebbe indurre ad una riforma[1]. Che anzi, ove si avviasse, permetterebbe di adeguare principi, obiettivi, funzioni e tecniche aprendo una strategicità al settore che in realtà esso ha, nel mondo, ma che con quella legge da noi finisce per nuotare in una bagnarola, chiamiamola URP o ufficio stampa non ha importanza, mentre dovrebbe nuotare nel mare aperto corrispondente alla realtà.

Detta così – e non credo di aver inventato io i postulati, che risuonano da anni – chi non firmerebbe appelli o petizioni per passare dall’annuncio all’attuazione?

Teniamo in sospeso un momento questa domanda e facciamo tre o quattro riflessioni di sistema.

Riforma, quale riforma, a beneficio di chi?

Il dibattito sembra un po’ arenato. Per due ragioni. Una chiama in causa i poteri. L’altra chiama in causa gli operatori. Uno:  il tema è artatamente considerato non in agenda. Due:  lo sforzo di entrare nel merito europeizzante di un’eventuale riforma non lo fa quasi nessuno.

Giustamente si è convocato questo incontro per fare un punto.

Per quanto mi riguarda mi concentro sulle funzioni.

Da esse si giudica lo stato di attuazione di quella legge e la capacità della materia di assolvere a compiti contemporanei importanti, dicibili, non generici, non desueti.

È ragionevole  una tripartizione dei livelli delle funzioni che – prendendo l’Europa come base di esperienza – sono rintracciabili.

  • C’è un livello basso o di base è quello dei riscontri anagrafici  e di accesso ai servizi. È ciò che spetta a un URP. È ciò che il 50% delle amministrazioni italiane assicurano. Come è in tutto il dualismo italiano anche qui c’è una metà del sistema che non fa neanche quello.
  • Il livello medio è quello che dovrebbe tener conto di finalità sociali che possono essere adottate come ragione primaria  dell’iniziativa comunicativa e relazionale e che quindi hanno un’attuazione non molto diffusa e comunque ancora sperimentale: per esempio: spiegazione dei processi (processi, non eventi) / accompagnamento sociale (che fatica!) / fronteggiamento dell’analfabetismo funzionale (chi lo chiede?) / agevolazione dei processi di coesione (come farla se non c’è la cornice di una politica migratoria?). Non ho il tempo di entrare nel merito. Ma le stime degli ultimi tre anni danno che questo perimetro, mai integrale e dunque   cantiere molto parziale, è attivo  in meno del 10% delle amministrazioni e degli enti.
  • Il livello alto (con esperienze abbastanza avanzate in varie parti del mondo) esprime una tendenzialità strategica per ora del tutto marginale che sta più nella convegnistica che nella pratica professionale: accesso riorganizzativo open data e nuova complessità della trasformazione digitale tra cui reale sperimentazione di settore dell’IA / reale gestione delle relazioni inter-istituzionali / organiche relazioni con la comunicazione di impresa e la comunicazione sociale/ contrasto alle fake-eventi (con inquadramento nella public diplomacy e nelle tecniche di soft-power). Anche qui pochissime storie compiute.

 

Non faccio a tempo ora a fare un inventario vero. Così come sorvolo su materie diventate post-comunicazione pubblica, cioè ambiti disciplinarmente nuovi e autonomi per caratteri concettuali e  funzionali capaci di innovare il  perimetro della funzione pubblica. 

Mi occupo di public branding da una ventina d’anni e posso testimoniare la diffusa indifferenza di amministrazioni anche potenzialmente interessate a tentare di sottrarsi  dal carattere diciamo medioevale delle applicazioni di marketing territoriale nel nostro paese.

Non entro poi nel ginepraio della sollecitazione che le dinamiche militari e della sicurezza hanno impresso ad altre trasformazioni (anche qui in parte tecnologiche, in parte strategico-funzionali) della radice di base che chiamavamo un tempo comunicazione pubblica. Vorrei solo segnalare che paesi forti e ammaestranti sulla materia, come la Gran Bretagna, hanno trasferito funzioni civili da ambiti militari o militarizzati, in materia di contrasto alle fake eventi e alla manipolazione delle informazioni ritenendo che ai militari spettino i presidi in cui si presume che esista un nemico esterno, mentre il quadro istituzionale di questi paesi ritiene che i target civili e mediatici interni facciano parte di trattamenti sottratti alle logiche e ai segreti del sistemi militari. Dico ciò solo per accendere piccole luci sul cambiamento del firmamento.

 

I due punti che sollevo sono questi.

  • Quale è il tavolo di verifica  istituzionale di questa esplosione disciplinare mondiale e della insufficienza presa d’atto in Italia di come trattare la trasformazione concettuale e sociale della materia?
  • Quale è il tavolo di verifica del trattamento dei percorsi formativi soprattutto negli ambiti accademici e delle scuole di formazione post-esperience, al fine di assicurare alimentazione adeguata e ricerca attorno alle trasformazioni?

 

Fatico, da tempo, a dare risposte a queste due domande.

E sono sempre meno sicuro che vi sia nel quadro istituzionale un luogo autorevole per farsi carico del valore principale che dovrebbe avere un processo di riforma delle normative sulla materia.

Il valore principale, a mio avviso, è costituito dalla portata sociale delle funzioni.

Capisco che la comunicazione deve dare risultati alla necessaria visibilità unita a trasparenza dei processi di governo, ma questo obbiettivo diventa “propaganda” se non c’è un concreto sforzo per:

  • abbassare le disuguaglianze,
  • ridurre il veleno sociale dell’analfabetismo funzionale,
  • creare accompagnamento alla legalità e all’inclusione attraverso un avanzato sistema di spiegazione (parola seminata da qualche anno ma lasciata dai più fuori dalla porta).

 

Nel cosiddetto dibattito sulla riforma, questo primario obiettivo lo sento citato casualmente, a volte in modo addirittura pretestuoso.

Resto quindi dell’idea che il sacrosanto riferimento ad accelerare la trasformazione digitale debba essere considerato un mezzo importante per raggiungere uno scopo. Non come “lo scopo”.

E che senza quello scopo si tratta solo di alimentare business o ampliamento di posti che diventerebbero strategici solo chiarendo il nuovo quadro delle finalità del sistema della comunicazione.

 

E vengo così all’ultimo punto dell’intervento.

Le difficoltà dei rapporti  con la  politica e le opportunità da vivere nel quadro delle crisi.

Che si sia aperto negli ultimi anni un processo di ibridazione e contaminazione che renda non  più separabili nettamente ambiti disciplinari e profili professionali, è cosa su cui discutiamo ed è cosa su cui arrivano finalmente nuovi studi.

Lodo l’ultimo lavoro in merito realizzato dal prof. Alessandro Lovari dell’Università di Cagliari, in open access sul sito dell’ateneo, perché ha il merito di partire da contributi importanti dati sugli aspetti della trasformazione digitale e  perché rompe l’imbarazzo di tanti a trattare per quel che è il conflitto e la confusione che si è creata tra politica e apparati istituzionali in materia comunicativa.

Una vera e propria tracimazione che depone malissimo in ordine alla garanzia che il decisore legislativo sia oggi libero e sereno nell’affrontare decisioni di riforme così delicate e importanti come quella su questa materia in cui – a destra e a sinistra – si è giudicato che il controllo del processo comunicativo sia troppo importante per la sopravvivenza della politica stessa per immaginare una evoluzione realmente indipendente, al reale sevizio dei cittadini,

C’è un grottesco ritorno al 1945: il nuovo sono io, l’amministrazione è una burocrazia ex fascista (si diceva allora) che è meglio che stia a timbrare le carte. Al cittadino ci parlo io.

 

L’argomento che segnalo da tempo non è naturalmente quello di incentivare questi conflitti. Bisogna partire dai territori di crisi (sanità, clima, ambiente, migrazioni, occupazione, diritti civili, illegalità, crimini, eccetera). Qui ci sono i cantieri veri in cui studiare la riforma della materia. E che docenti universitari dotati di adeguato spirito di public engagement e operatori professionali (e loro associazioni) preoccupati di alimentare la conoscenza delle ragioni per cui utilizzare la comunicazione, facciano quello che è normale fare nelle aree di crisi: tavoli di sinergia tra operatori istituzionali, operatori di impresa e operatori sociali per produrre soluzioni.

Che già avvengono soprattutto ai vertici. Ma che possono anche avvenire concependo un altro perimetro della comunicazione pubblica in cui anche l’impresa e anche il settore dell’advocacy, oltre a fare la loro comunicazione di prodotto, siano soggetti importanti per discutere insieme di interessi generali.

Dopo aver dato uno straccio di risposta sulle finalità sociali della riforma e dopo aver creato percorsi di condivisione seria sulle condizioni di crisi, vi prego di credere che la qualità, il merito, l’opportunità di parlare di riforma della 150 diventerà una partita molto più interessante.

 

 




[1] La legge 150 si deve alla sollecitazione che l’allora Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri fece all’allora Ministro per la Funzione Pubblica Franco Frattini di accogliere la sperimentazione ormai di anni e procedere ad una “legge-quadro” per dare certezza a dritti e doveri in un campo di primario significato di attuazione costituzionale. Il ministro chiese al Dipartimento il primo draft dell’articolato della proposta che fu poi trattato da quell’Amministrazione e presentato come ddl in Parlamento. Si deve poi al coinvolgimento del CNEL, presieduto da Giuseppe De Rita, che nel 1994 chiese all’Associazione della comunicazione pubblica e istituzionale di svolgere un’ampia rendicontazione, analitica, dell’evoluzione dei cantieri sperimentali (a cominciare dal più significativo, quello presso la PCM) in materia di comunicazione istituzionale che configurò un  ampio dossier curato dall’Associazione e patrocinato dal CNEL (La comunicazione pubblica in Italia : realtà e prospettive di un settore strategico, a cura e con introduzione di Stefano Rolando, prefazione di Giuseppe De Rita, edito da Bibliografica nel 1995) che costituì la base di riferimento per altri sviluppi dell’iniziativa parlamentare, tra cui significativa la proposta di legge presentata dall’on. Massimo Villone, a cui fece seguito l’impegno e il presidio della stessa Associazione al fine di raggiungere, con i due progetti configurati dai due maggiori schieramenti, un testo unificato che rispondesse al principio di una normativa sostenuta dal Parlamento, con l’apprezzamento dei Governi che si erano succeduti. E quindi con il carattere “bipartizan” ritenuto utile e necessario per lo spirito di attuazione e di piena adesione delle amministrazioni nel loro complesso. L’iter del testo unificato, pur non ricevendo tempi agevolati nel suo percorso, fece maturare nel 2000 l’approvazione della legge 150/2000, intitolata "Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni".

 

Informativa

Utilizziamo cookie o tecnologie simili per finalità tecniche e, con il tuo consenso, anche per altre finalità come specificato nella cookie policy.

Puoi acconsentire all'utilizzo di tali tecnologie utilizzando il pulsante "Accetta tutti". Fino a che non sceglierai una opzione utilizzeremo solo i cookie tecnici e necessari.